
Partendo da alcune riflessioni di Silvano Sirboni, in un’articolo apparso sulla rivista “Orientamenti Pastorali” del gennaio 2003, prende forma una riflessione sulla preghiera vissuta nella comunità e l’incisività che essa ha nella vita del credente. Anche se teoricamente tutti affermano che la liturgia è fonte e culmine della vita cristiana (cf. SC 10) non significa che in pratica sia sempre così. La celebrazione liturgica, nella sua massima espressione che è l’assemblea eucaristica domenicale, resta spesso una “cosa da fare” con la sensazione (non sempre apertamente confessata) che le cose importanti sono altrove. Ma è proprio nell’istituzione dell’eucarestia che Gesù inaugura l’ora più importante della sua vita, anticipando l’offerta di se stesso che si compirà sulla croce, come il modello più perfetto per la vita del cristiano. Il prefazio comune IV, rivolgendosi a Dio Padre, ci fa pregare così: “Tu non hai bisogno della nostra lode, ma per un dono del Tuo amore ci chiami a renderti grazie; i nostri inni di benedizione non accrescono la Tua grandezza, ma ci ottengono la grazia che ci salva”. Non è Dio che ha bisogno di noi e dei nostri atti di culto, ma siamo noi che abbiamo bisogno di Lui. Non si va a messa per fare un favore a Dio (e tanto meno al parroco), ma per ringraziarlo perché in Cristo ci ha donato tutto sé stesso e ci ha indicato la strada per dare pienezza di senso alla nostra esistenza nella nostra quotidianità. Un esistenza che, alla luce del messaggio di Dio fatto carne, assume un valore, diventa preghiera e vero sacrificio gradito a Dio nella misura in cui si fa dono, pane spezzato e vino versato per rivelare al mondo il volto di Dio. Questa consapevolezza porta la CEI ad affermare: “Se un anello fondamentale per la comunicazione del Vangelo è la comunità fedele al giorno del Signore, la celebrazione eucaristica domenicale, al cui centro sta Cristo che è morto per tutti ed è diventato il Signore di tutta l’umanità, dovrà essere condotta a far crescere i fedeli mediante la Parola e la comunione al Corpo di Cristo, così che possano poi uscire dalle mura della chiesa con un animo apostolico, aperto alla condivisione e pronto a rendere ragione della speranza che abita i credenti” (CVMC 48). Il cristiano non e semplicemente uno che recita formule di preghiera diverse da altre religioni, ma è colui la cui preghiera, a partire dall’eucarestia, è espressione vera e coerente della sua capacità di comunione con Dio e con i fratelli. In conclusione la preghiera non cambia Dio ma cambia me.