Una malattia chiamata Ignavia

Pubblicato giorno 15 aprile 2021 - Morale

In questo anno dedicato a Dante Alighieri, ho trovato l’opportunità di meditare e riflettere su un peccato di cui (soprattutto ai nostri tempi) sembra per tanti aspetti essere diventato una normalità e proprio per questo non si prende più in considerazione ma c’è. Potremmo definire l’accidia una malattia secolare, una grave patologia che attecchisce sulla pelle e dentro l’ardire di un uomo sgretolandolo lentamente, facendolo marcire fino alla completa perdita della propria umanità. Secondo la lettura fatta dal sommo poeta, L’ignavia è la casa di coloro che vivono come dei manichini: esseri inanimati che non hanno ideologie, visioni, pensieri e prese di posizioni sulle quali basarsi per costruire strutture solide nelle quali e per le quali vivere dignitosamente e valorosamente. L’ignavo è perennemente rinchiuso in una teca di vetro nella quale boccheggia sereno, indolenzito nel suo mondo: galleggia staticamente e si trova in una posizione di assoluta comodità poiché dal suo scrigno protetto e lontano dal disordine del mondo osserva quelle poche anime che ancora si affannano alla ricerca di una motivazione, pungolati da piccoli fuochi di verità e sensibilità impetuose per deriderle, giudicarle dalla loro posizione inerme e inutile, gonfi di autocompiacimento fittizio.

“Questo misero modo

 tegnon l’anime triste di coloro

 che visser sanza ‘nfamia e sanza lodo.

(…)

Caccianli i ciel per non esser men belli,

 né lo profondo inferno li riceve,

ch’alcuna gloria  i rei avrebber d’elli” (Dante Alighieri, “La Commedia”, III canto “Inferno”)

Il lungo percorso catartico adoperato da Dante nei meandri dell’Ade e alla scoperta dei peccati e dei peccatori che dimorano tra le sue fiamme inizia con la visita a coloro che non furono accettati nemmeno all’interno dell’Inferno: gli ignavi, coloro che nella vita non hanno mai scelto né il bene né il male rimanendo assopiti senza compiere azioni giuste né cattive, spinti dal moto del mondo senza avvertirlo e senza farne mai parte. Dante considera l’ignavia il peccato più grande perché sinonimo di una mancata umanità, di una mancata appartenenza alla comunità e all’esistenza umana: le loro vite sono misere, indegne di essere accettate persino tra coloro che hanno peccato.

Sul piano religioso la totale indifferenza e mancanza di interesse per una vita di fede seria, viene presentata dall’Apocalisse di san Giovanni apostolo con la lettera alla chiesa di Laodicea usando un’espressione molto forte: “poichè non sei ne caldo ne freddo, ti ho vomitato dalla mia bocca”.

L’apatia, frutto di un secolarismo sempre più diffuso tra i cristiani, porta allo svuotamento nella propria vita di fede di conoscenza della Scrittura e del Magistero, dissolve l’orizzonte della prospettiva della vita eterna in Dio, svuota di senso la partecipazione alla vita delle nostre comunità.  L’ignavo moderno è colui che non avverte la fede come esigenza e come una prassi di interesse personale, oltre che collettivo. Rispetto alla comunità ecclesiale è convinto fermamente che riguardi “l’altro”, non se stesso e si estrania dal mondo, vivendo in una bolla alienata dalla comunità e dalle sue esigenze. Volendo usare un’immagine, l’ignavo moderno siede ogni sera, dopo una lunga giornata di lavoro stancante e con tutta probabilità persino deludente e poco soddisfacente, su una comoda poltrona posizionata dinanzi al televisore sempre acceso casualmente su notiziari che ascolta distrattamente quasi come un dovere, senza essere direttamente interessato alle vicende che si susseguono sullo schermo colorato.